Selvaggia Lucarelli: «Quando ho capito di essere guarita (da un amore tossico)»

lucarelli

La giornalista e scrittrice nel podcast «Proprio a me» racconta di quando «non ero innamorata, ma ero malata». La sua storia (sbagliata) e poi quella di altre donne (e di un uomo). Gli errori, le «colpe» («non esiste predatore senza preda»), la risalita e il presente: «Quello che vorrei aver insegnato a mio figlio è l’importanza di farsi del bene quando si sta insieme a un’altra persona».

Col senno di poi i segnali c’erano tutti. La prima mail in cui lui, in fondo, parlava solo di se stesso. La prima litigata, per il tappo dell’ammorbidente chiuso male. Il ritrovarsi in ginocchio, nella doccia, con un unico obiettivo: pulire tutte le fughe. Il lettino del bambino? Nascondiamolo nella Spa. Col senno di poi è (più) facile riconoscere che «il nome del ristorante in cui andare la prima sera fu l’ultima cosa che governai io». Il difficile è rendersene conto «durante» (o ancora meglio «prima»).

«Non ero innamorata, ero ammalata», Selvaggia Lucarelli, 46 anni, lo dice nella prima puntata del suo primo postcast Proprio a me (prodotto da Chora Media, e disponibile su tutte le principali piattaforme), che partendo dalla sua testimonianza rivela come un amore può essere tossico, e fino a che punto si può sprofondare in una relazione malata. Anche quando per il mondo sei «una dominatrice, una che non lasciava scoperto il fianco».
La giornalista e scrittrice ha vissuto quattro anni di «dipendenza affettiva»: era nei suoi 30 anni, aveva divorziato da poco ed era madre di un bambino (Leon, ndr) di tre anni. E la sua storia fa da incipit a quella di altre donne (e di un uomo), per poi concludere con una lunga chiacchierata con una psicologa: «Volevo che chi ha attraversato quello che ho vissuto io si riconoscesse: non è infelicità, è malattia». E «guarire» è possibile.

Il giorno in cui è uscita la prima puntata, la sua, l’ha vissuto come una liberazione?
«In realtà non l’ho vissuto come una liberazione, perché si tratta di una cosa non recente. Avevo già accennato alla vicenda in alcuni dei miei libri. Quando parlavo di «Mister Amuchina», era un modo per parlare della sua ossessione per la pulizia e per l’ordine, ma allora lo facevo in una veste ironica. Non ero mai andata in profondità. Avevo fatto tutto il mio percorso, mi sentivo già libera, ma non ne avevo mai parlato. Tutto è nato da un caffè conoscitivo preso con Daria Bignardi, prima della puntata de L’Assedio. Le ho accennato qualcosa della mia storia e lei ne è rimasta stupefatta. “Com’è possibile sia successo a una donna come te?”, la sua domanda. Così quando è uscita la prima puntata di Proprio a me l’ho vissuta come “finalmente, una condivisione”. Con tante altre donne, altri uomini, per dire che può capitare di inciampare in una storia tossica».

Succede quando si incontra un narcisista?
«I narcisisti si presentano sempre con un biglietto molto splendente, ti danno quest’idea di essere l’unica, sempre dal loro punto di vista, quindi l’unica a cui è concesso entrare in certi spazi, l’unica con cui si aprono. Le classiche frasi potrebbero essere queste: “Io sono sempre scappata, ma con te…”, “Io non ho mai vissuto con nessuno, ma con te…”. Solo un escamotage per farti diventare una crocerossina».

La dipendenze affettive, però, riguardano le donne, ma anche gli uomini. Una delle storie di «Proprio a me» ha, infatti, per protagonista un uomo.
«Sì, e la sua relazione tossica ha avuto una durata enorme, 10 anni. Ha avuto bisogno di molto più tempo per capire che c’era in atto una violenza psicologica molto sottile. Le donne possono essere delle manipolatrici eccezionali. Conosciamo meno storie che riguardano gli uomini anche perché tendono a voler condividere molto meno le loro vulnerabilità».

Quanti commenti, lettere, messaggi ha ricevuto finora?
«Milioni, un fiume di racconti. C’è chi mi ha detto che è andato su Google per capire se fosse vittima di una dipendenza effettiva, chi ne era già consapevole. Altri mi hanno scritto di essersi riconosciuti nei manipolatori».

C’è sempre una vittima e un carnefice?
«No, non è un gioco di colpe. Non esiste una dipendenza affettiva senza una complicità tra le parti in causa, anche se evidentemente c’è una delle due parti che soccombe».

Col senno di poi, il suo «carnefice» lo assolve in qualcosa?
«Io credo che arrivati a una certa età, i propri limiti bisogna capirli. E lavorare su stessi. Dovresti cercare una soluzione, se ti lasci dei cimiteri alle spalle. Ma non esiste predatore senza preda. Una parte di responsabilità quindi sì era anche mia. Anch’io dovevo lavorare su me stessa. Dovevo proteggermi di più, capire che stavo soffrendo di una dipendenza affettiva. L’importante è dire “dobbiamo proteggerci e non dire che siamo solo vittime”».

Sa che fine ha fatto quell’uomo? Le viene mai voglia di googlarlo?
«No. Credo che si è davvero guariti, quando non si ha più curiosità. Spero sia felice, la sua vita è una cosa che non mi riguarda più. Un tempo mi capitava di dover passare spesso davanti a casa sua, e ogni volta o era un dolore acuto o preferivo cambiare strada. Finché una volta mi sono resa conto di essere nella “sua” strada e di non averci nemmeno fatto caso».

Nessuno si salva da solo?
«Io credo che sia uno dei casi in cui tutti si salvano da soli. Certo, gli amici, le persone di cui ci si fida hanno il ruolo del grillo parlante, ma non hanno un potere persuasivo. Sono una sorta di ripetitore di quello che tu stai vivendo. Una dipendenza affettiva ti toglie lucidità, ti toglie tutto. A me è successo che quando ho toccato il fondo, a un certo punto me ne sono accorta».

Pensa che l’essere madre, l’avere Leon nella sua vita l’abbia aiutata in quei momenti?
«Credo che essere madre abbia complicato la convivenza con quell’uomo. Ma il fatto di sentirmi responsabile verso mio figlio abbia poi facilitato la mia reazione. Ho passato dei giorni nel più totale abbrutimento, sono stata a un passo dalla depressione, il mondo mi sembrava una montagna. Ma in quei momenti sapevo che dovevo alzarmi dal letto a un certo punto, lo dovevo a mio figlio. È sempre stato lui la priorità, ma essermi persa degli anni di maternità felice è ciò che più mi pesa. Quando è finito tutto poi ho pensato a come potevo riparare, al rapporto con mio figlio».

Crede che oggi Leon sia più apprensivo nei suoi confronti?
«No, sa che me la so cavare da sola (ride, ndr). Anzi, oggi tende sempre a prendere le difese del mio compagno Lorenzo (Biagiarelli, ndr). Quello che vorrei aver insegnato a Leon è l’importanza di farsi del bene quando si sta insieme a un’altra persona. Oggi che ha una fidanzata, ogni tanto lo controllo, cerco di capire che “fidanzato” è. E devo dire che ha sviluppato una grande attenzione per il bene dell’altro, si preoccupa di come sta la sua fidanzata, se è felice. Lo chiede spesso anche a me “Come stai, mamma?”.

E come sta?
«Benissimo»

In una dipendenza affettiva possiamo caderci tutti?
«No, non tutti per fortuna. Chi ha gli strumenti per scappare, li usa subito, fortunatamente».

Selvaggia Lucarelli: «Quando ho capito di essere guarita (da un amore tossico)»ultima modifica: 2021-04-28T21:30:15+02:00da maross8